Le fotografie sono importanti. E troppo personali.
Per chi, come me, è immerso ogni giorno nella cura di un lavoro fatto di immagini, fotografie, elementi visivi, è facile scontrarsi con piccoli drammi quotidiani relativi alla scelta del materiale da usare.
La scelta non è solo estetica, non lo è quasi mai, in verità. E’ piuttosto una questione etica, legata all’origine da cui provengono le fotografie da utilizzare, come utilizzarle, come rispettarle e non stravolgerle, pur mettendoci del nostro nell’elaborazione creativa che il lavoro richiede. Alla radice del tutto c’è l’elemento più delicato che, ognuno di noi, ogni giorno, si trova a dover affrontare: quello della privacy.
Quando, fin dalle elementari, andavo in gita, mi portavo la macchinetta fotografica, probabilmente in plastica e con il rullino, perché per me era un grande evento, da conservare e ritrarre nel momento in cui lo vivevo.
Crescendo ce l’avevo immancabilmente dietro con me ad ogni festa, sempre armata di rullino e fotografie da dover in seguito sviluppare, quindi in cui investire denaro, anche se erano venute sfuocate, bruciate, male, era impensabile per me non scattare.
Oggi, a malincuore, mi capita di cogliere il momento con la fotocamera del cellulare, in mancanza della macchina fotografica a disposizione. Qualità pessima, nessun controllo di profondità, fuoco, luce, ma almeno porto a casa quello che ho in mente in quel momento.
Se poi penso che sia così interessante da condividerlo sui social network, mi chiedo prima chi altro è ritratto, oltre me, e scrivo un messaggio privato chiedendo il permesso di esporre l’immagine che diverrà pubblica. Pubblica? Sì. Anche se abbiamo impostato restrizioni ad amici, stretti confidenti, crediamo di disporre dei nostri pensieri e immagini condividendole con solo poche centinaia di persone, al momento dell’iscrizione di qualsiasi social abbiamo firmato un accordo per cui quelle fotografie non saranno mai solo nostre, ma di proprietà del social network. Questo che significa? Che potremmo, paradossalmente, vederle stampate in un poster grande come un grattacielo di New York e utilizzate per una pubblicità di sigari, senza che mai nessuno ci abbia chiesto il permesso, né men che meno pagato per sfruttare la nostra immagine.
Quando ho cominciato il liceo, e non c’era ancora nessun pericolo rispetto alla divulgazione delle fotografie, scritti o musica, o qualunque cosa ognuno di noi producesse in quel momento, mi facevo varie domande, perché stavo per entrare in una fase di cui ero pienamente consapevole: quella della sottoscrizione della carta di identità. Mi chiedevo se volevo veramente entrare a far parte di un sistema che, con il mio consenso, mi catapultava all’interno di una banca dati in cui sarei stata reperibile sempre e senza via di ritorno, in cui comparivano data di nascita, altezza, fotografia, professione, segni particolari. Era una scelta delicata. Allora sognavo di andare a vivere in un bosco con una comunità che viveva di autosostentamento, lontana da ospedali, strade, inquinamento; leggevo i libri di Andrea De Carlo e ci credevo. Poi ho cominciato a fare qualche viaggio, e a capire che l’esplorazione del mondo era la mia missione. Qualunque cosa avrei fatto l’avrei svolta di contorno, un lavoro, una famiglia, sarebbero stati un corredo alla voglia di conoscere tutto, tutto quel poco che offre il pianeta terra, e magari poi sarei riuscita a mettermi una tuta da astronauta e sarei andata ad esplorare oltre.
Questo presupponeva che io, da quel momento, cioè 15 anni compiuti, varcassi un check-in munita di documento di identità, che dessi il consenso a fare un passo dentro il sistema in cui, digitato il mio nome e cognome, pressocché chiunque avrebbe avuto accesso ai miei dati sanitari, personali, globali. Lo accettai.
Le scelte sono importanti. Che siano religiose, politiche, d’amore, determinano quello che siamo, e spettano solo a noi. E se non fosse così? Se qualcun altro cominciasse a decidere per noi, magari un un’età in cui non ne siamo ancora in grado, e arrivati ai famosi 15 anni ci ritrovassimo con tutte le nostre foto pubblicate, insieme alle nostre sorelline, nonni, in vacanza se va bene con il costume e per la prima volta sul vasino? Qualcuno non avrebbe usato violenza sulla nostra identità, senza possibilità di ritorno, raccontando cose personali di noi da piccoli, i nostri nomi, quanto pesiamo, che faccia abbiamo, senza che i noi adulti e forse non consenzienti in futuro potessimo ormai dire nulla?
Infine, forse alcuni di noi vivono nei boschi insieme alle comunità isolate dalla civiltà, e non hanno mai sentito parlare di pedofilia. Di cosa si tratta? Sul web è facile reperire materiale fotografico di bambini o ragazzini (vi posso assicurare che ci sono genitori che permettono ai figli di aprire il proprio profilo, ad esempio, su facebook, i quali pubblicano le loro fotografie, ad uso e consumo di tutti, corredate magari da hashtag che ne permettono l’individuazione anche dall’altra parte del mondo); a chi arrivano queste immagini? Lo sapete voi? Probabilmente nelle mani sbagliate, di qualcuno che nemmeno conoscete che le salva e le conserva nei propri pc, per farne l’uso personale che desidera. E gliel’avete permesso voi.
A me corre un brivido lungo la schiena ogni volta. Tutte le sante volte che vedo le fotografie di bambini, figli di persone che conosco, pubblicate su internet, con la leggerezza di chi, quella scelta, non l’ha fatta, e quel dubbio non se l’è posto.
Scusate se non metto l’ilike, i vostri bambini sono spesso bellissimi, e lo meriterebbero.
I miei nasceranno tra un paio di settimane, ma ve li presenterò di persona, così ne conoscerete i nomi, il profumo, le strilla e i sorrisi.
Non pubblicherò nessuna fotografia che li ritragga? Non lo so, forse, come quando eravamo piccoli noi, ci saranno bellissime feste di natale, oppure tutti insieme al mare, per cui saremo felici di condividere la nostra gioia anche sui social network o pubblicandole sul blog, ma lo deciderò, facendo attenzione che i bambini non siano ritratti isolati.
E se becco qualcuno a postare qualcosa che li riguarda saranno guai.